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Biografia

  • Data di nascita

    22 Marzo 1966 (età: 58)

  • Luogo di nascita

    Hamelin, Niedersachsen, Germania

Spesso si pensa che, per avvicinarsi al regno del pop, sia necessario all’artista d’avanguardia, accettarne le convenzioni, adeguarsi al dogma strofa-ritornello, imbrigliare la propria vena compositiva in forme più nitide, più assimilabili. Max Richter è la prova vivente che tutto questo non è necessario: che è possibile, per converso, piegare il pop alle regole dell’avanguardia.

Estrazione classica, studi presso l’accademia di Luciano Berio, trascorsi in un ensemble, i Piano Circus, dedito a reinterpretazioni di Steve Reich, Brian Eno, Philip Glass, Richter fa tesoro della sua esperienza e la traghetta in un regno sonoro nebbioso e metafisico, ma anche meravigliosamente, dolentemente terreno.

Un minimalismo contraddittorio cui piace bearsi con contrapposizioni dolci di note, un ambient che non si limita a rimanere sullo sfondo come carta da parati ma infesta l’aria con spiriti tristi e brezze autunnali, una matrice classica che si serve di strumenti analogici fatti in casa e di punte di elettronica per uscire dalle polverose aule dei conservatori. Post classical, la definisce così, Richter, la sua musica, quasi a voler precedere qualche zelante critico musicale in preda a smanie di labelling.

E mentre gioca coi nomi, Richter, silenziosamente, placidamente, dà alla luce un altro capolavoro: come se non fosse bastato quello del 2004: The Blue Notebooks. Songs From Before: canzoni che lacrimano, che soffiano sulle braci ormai spente del cuore, placide ma inesorabili, neo romanticismo tedesco che pare un contraltare sobrio alla bulimia melodica di Maximilian Hecker.

Canzoni senza nome che si aggirano per casa come spettri senza pace (Song), frammenti di note di piano che gravitano sospese nel vuoto di una casa abbandonata (Fragment), onde sonore impercettibili in viaggio nella ionosfera (Ionosphere), musica che irrora col suo pianto foglie secche e fiori appassiti (Autumn Music1), il fiato minaccioso e gelido dello scorrere del tempo (Time Passing), il tepore dei primi raggi di sole (Sunlight), il ricordo commosso di luoghi che non esistono più (From The Rue Vilin).

Difficile non barcollare di fronte alle folate crudeli di questo disco, dolcemente intento a torturare, con pochi, stregati tocchi, l’anima di chi avrà la fortuna di ascoltarlo.

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